Paolo Grassino

Le mie riflessioni sulla scultura come mezzo prediletto per testimoniare i tempi contraddittori e le derive socio-politiche che viviamo, mi hanno portato a cercare nella tradizione figure plastiche altamente suggestive, drammatiche, sconcertanti e persino spaventose e sorprendenti. Tutto appare come una scena vista da lontano, un’allucinazione tangibile, sensuale, immediata o meglio alienata. Queste figure, sebbene mai viste prima, emergono in modo potente, come realtà ben note, familiari e concrete, come improbabilità presenti fisicamente e materialmente possibili.

L’immobilità, lo stato di attesa enfatizzato e soprattutto, la strana devozione mostrata dalle figure che vedono il proprio destino con
apatia e stoicismo, che accettano il proprio destino senza opporre alcuna resistenza, senza dare voce a nessuna protesta, e senza esprimere alcun dolore o sofferenza è presentata con complicità. Questa durezza spietata, oggettiva e arcaica crea un’atmosfera di abbandono ed esclusione. Ed è questa indifferenza oggettiva, arcaica, impersonale e fattuale che trasferisce un personaggio archetipico all’opera, qualcosa di anacronistico e di grande attualità, qualcosa di coraggiosamente radicale e resistente.

Il radicalismo è incentrato su questo obiettivo, indifferente e impersonale. Non racconto le mie storie, ma condivido le realtà inevitabili e irreversibili delle improbabilità. Queste immagini di improbabilità radicalmente sconfinate generano la sorprendente coerenza di tali narrazioni cupe e sconcertanti.

Nonostante il dramma, nonostante il surrealismo, nonostante la fantasticheria – a volte percepita come macabra a volte sensuale ed erotica, a volte spaventosa, o addirittura selvaggia e brutale c’è un’aura di leggerezza poetica. Il radicalismo delle immagini delle improbabilità non richiede alcuna legittimità esterna: la sua realtà ineluttabile è perfettamente in grado di legittimarsi.

Anni fa ho letto un saggio fondamentale pubblicato nel 1950 da Ernst Junger dal titolo “Oltre la linea”, testo dedicato al tema che attraversa tutto il secolo passato: il nichilismo. Jünger riflette in questo saggio, se sia possibile «l’attraversamento della linea, il passaggio del punto zero» che è segnato dalla parola niente. E puntualizza: «Chi non ha sperimentato su di sé l’enorme potenza del niente e non ne ha subìto la tentazione conosce ben poco la nostra epoca». Certo, sono passati molti anni da quel libro e da quel momento storico appena uscito da un conflitto devastante ma credo e in qualche modo mi sento, come molti, sul limite prima di una frattura sociale e civile irreversibile.

Paolo Grassino